“faccio quattro passi a piedi, fino alla frontiera.”
“faccio quattro passi a piedi, fino alla frontiera.”

“faccio quattro passi a piedi, fino alla frontiera.”

“[…] vengo con te.”

9 marzo 2012

TORINO – MILANO, ore 4:50 am

Il mio viaggio comincia con la sigaretta del signor Beppe, ferroviere e custode, che sfavilla ormai consunta dietro il cancello della stazione. Porta Nuova si schiude come un fiore puntellato di freddo, pochi minuti dopo il mio arrivo. Immagino Beppe compiere ogni mattina gli stessi movimenti, come in una danza rattrappita. Mozzicone, chiavi, cancello.

Il mio taxi bianco si allontana come una biglia lanciata nella notte, tra arterie a traffico limitato. Al pallido chiarore di un tassametro si è tutti inutilmente amici. All’alba, poi.

Il tassista mi ha confessato la sua paura di volare, ma l’ha impastata con battute che nessuno voleva ascoltare.

E adesso siamo qui, su questo vagone di seconda classe. Per ragioni certamente diverse: una coppia over 60 parla di letture di fantascienza, un bel ragazzo con il cappuccio tirato su, un cowboy. La signora intona una canzone. Forse De Gregori, storie di amori, bambini. E uomini di nome Gesù.

Le porte, il fischio. L’allucinazione di una brioche alla cioccolata.

Le tavolette di valeriana tintinnano nello zaino. E tu mi guardavi con compassione, poco fa.

Ho paura di volare.

10 marzo 2012

BERLINO

Un personaggio di Baricco scrive tutto ciò che impara quotidianamente su un quaderno viola, ci ho pensato salendo le scalette della stazione della metropolitana di Boddinstrasse, mescolando adagio con il cucchiaio di legno, tutte le cose che poi avrei voluto versare qui sopra.

Pare che il muro di Berlino sia stato avviato allo smantellamento a causa di un errore del funzionario addetto alle comunicazioni. Il governo aveva deciso di consentire il traffico da est a ovest attraverso un pass ma la notizia fu data sommariamente, senza entrare nello specifico della prassi.

Poi la domanda: “da quando?”

“a partire da questa mia dichiarazione”.

Migliaia di persone si riversarono ai checkpoint. Nel timore di una sommossa, i governanti furono costretti a liberalizzare il passaggio.

La puntualità di una domanda. Trama e ordito che ballano un tango. Un’interpretazione. Una moltitudine. L’imprecisione.

Ora. Io non so quanto questa storia sia vera o attendibile, e sinceramente me ne frego. Mi piace l’entusiasmo di Stefano nel raccontarmela, mentre i nostri corpi si inarcano lungo il perimetro del fish eye e la porta di Brandeburgo lascia filtrare tutta la luce del tramonto.

Mi piace credere in un meccanismo perfettamente programmato per girare grazie all’arteria scura del suo tarlo migliore, della sua malattia.

Mi piace credere in un equilibrio di ferraglia capace di esplodere a causa di una foglia secca, incastrata tra gli ingranaggi.

“Cosa vuoi da me?” e anche il nostro ingranaggio è esploso. Come un sacchetto di coriandoli. Le solite domande, strette in un tango.

Unter den linden.

Significa “sotto i tigli” ed è il nome di un viale che celebra la rinascita della città dopo la dittatura, oltre che il verso di una poesia tedesca.

Sotto i tigli, ridotti dall’inverno a sagome ossute, protese come mani disgraziate verso il cielo, passeggio con Stef al sole pallido, come se la piena di questi anni non avesse levigato i nostri profili.

Mantenendo l’obiettivo fermo su un scorcio in penombra di Pariser Platz, si sporge verso di me e si schiude.

“Che giornata assurda, io e te, in giro per Berlino.”

E non lo so se lo ha immaginato anche lui. Il colle della Maddalena, il Faro, Torino, le mani sugli occhi. I ricevitori. Io pensavo mi avesse portata a vedere i ricevitori del telefono. Non il panorama, non il faro. Solo i ricevitori.

Il monumento all’Olocausto – Denkmal für die ermordeten Juden Europas – si trova nel quartiere Mitte. È una schiena attraversata da mille piccole schegge.

Puoi girarle attorno, spiarla, scrutarla, curioso di evincere la profondità del suo rimorso, ma i lembi della sua pelle continueranno a richiudersi, come una serratura, attorno alla lama.

11 Marzo 2012

BERLINO

Radiohead, pioggia, vento e graffiti. Vorrei avere della grafite affilata tra le ciglia, sotto i piedi, tra i capelli. Una matita attaccata ai pensieri, per regalarli istantaneamente alla carta prima che il tempo li penetri umido, li molesti, li sporchi, li infeltrisca.

IL MURO. East side gallery.

Ho trascorso dieci minuti davanti a una macchia di vernice rossa. Il dono violento di un artista a questo ricordo. Nel frattempo a Berlino colava il trucco sulle guance.

Resto qui. Perché tutto ciò che conta non ha parole, figuriamoci i contorni.

Il ponte rosso.

La foschia che disegna uno skyline.

Il silenzio composto e sofisticato dei battelli.

Una fabbrica di nuvole in lontananza.

13 Marzo 2012

BERLINO

Friedrichstrasse – Cammino per raggiungere Checkpoint Charlie.

Sono entrata nel bar più sfortunato, spinta dal cieco bisogno di caffeina. Nella saletta interna c’è una parete dall’orribile fantasia senape, simile a una carta da parati.

C’è una rosa finta dentro un vasetto, sopra ogni tavolo. Tutti i clienti sono intellettuali armati di Marlboro d’ordinanza e Moleskine, oltre la quale mi scrutano curiosi.

Alla radio, The Universal, dei Blur.

Il caffè non tradisce le aspettative e fa schifo.

Come da tradizione.

E poi.

La pagina che manca è una passeggiata nel parco, ebbra di arancione.

È Strasse des 17 Juni, grigia e ignorante, con il marmo e i carri armati.

La pagina che manca ha appuntato sul retro di un biglietto della metropolitana i posti rimasti da vedere.

Si mescolano all’inchiostro del timbro di un giorno che manca.

La pagina che manca racconta di quell’ultimo momento in cui non mi mancava niente.

Di quello in cui sentivo che, invece, mi mancava qualcosa. Qualcuno. Finalmente.

E anche se quella pagina non manca più, ormai, chi manca, continua a mancare.

È solo qualcosa che non c’è, che fa il solletico.

Buonanotte Berlino.

Il Tacheles,

Il mercato turco di Kreuzberg,

prova a raccontarli.

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